*di Ilaria Nina
Per la rubrica “intolleranze e idiosincrasie sino-file”, il regista Quentin Tarantino conquista col suo ultimo nascituro “C’era una volta a Hollywood” (“Once upon a time in…Hollywood”, 2019) la vetta di miglior piantagrane della Repubblica Popolare Cinese. La pellicola, con protagonisti Leonardo di Caprio, Brad Pitt e Margot Robbie, segue le vicende di un attore televisivo (Leonardo di Caprio) dalla vita smodata e carriera in declino e della sua controfigura (Brad Pitt) che, intenti a farsi strada nell’industria cinematografica hollywoodiana, si ritrovano ad essere vicini di casa di Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie), appena qualche mese prima del tragico eccidio di Cielo Drive.
La storia dai tratti semi-realistici non ha essenzialmente nulla a che vedere con la Cina o con la cultura cinese in generale, se non per una fugace scena secondaria in cui compare lo stuntman Mike Moh nei panni dell’icona mondiale del cinema delle arti marziali Bruce Lee (李小龙 1940-1973). Il breve frammento inizia con un flash back di Cliff Booth (Brad Pitt) che spiega perché il quel momento non stesse lavorando come controfigura del protagonista (di Caprio). L’ex veterano di guerra e sospettato di omicidio fra le mura domestiche è accusato di aver sollevato una rissa contro Bruce Lee sul set cinematografico de Il calabrone verde, serie televisiva girata fra il 1968 e il 1969 che nella vita reale è valsa all’eroe delle arti marziali ampia fama ad Hong Kong, grazie alla sua interpretazione nel ruolo di Kato, assistente e autista del protagonista.
Ad accendere la miccia del combattimento fra i due personaggi sarebbe stata un’affermazione di Lee che sosteneva di poter rendere “storpio” persino il celebre pugile statunitense Cassius Clay (Muhammad Ali). A questo punto Cliff decide di sfidare Bruce in una lotta a mano libera e, assestati diversi colpi, conclude la scena scaraventando il corpo di Lee contro la portiera di una macchina adiacente, danneggiandola. In un’intervista per l’aggregatore statunitense HuffPost, il coordinatore degli stuntmen di C’era una volta a…Hollywood, Roberto Alonzo, rivela che Tarantino aveva originariamente scritturato una versione molto più lunga del combattimento fra Pitt e Lee, che diversamente nel film si sarebbe risolta in una scena di cinque minuti circa. La parte pensata inizialmente dal regista comprendeva un terzo round di lotte, molto più lungo di quello ufficiale, in cui i due personaggi avrebbero continuato a darsi contro vedendo Cliff che, in ultimo, avrebbe inferto a Bruce Lee quella che Alonzo ha definito “una mossa a buon mercato”, sconfiggendolo in maniera definitiva. A esprimere una forte obiezione nei confronti del progetto è stato in primo luogo proprio l’attore Brad Pitt affermando che la scena prolungata avrebbe soltanto alimentato rabbia e frustrazione per la sconfitta, troppo surreale, di un idolo mondiale nel campo delle arti marziali e che ne avrebbe danneggiato l’immagine nazionale e internazionale.
Tuttavia, il proposito di Tarantino non era quello di sminuire l’abilità di Lee, del quale si è sempre dichiarato fervente ammiratore, quanto piuttosto mostrare la forza e la tenacia di Cliff a sottolinearne l’inestimabile coraggio che lo porterà poi, nel finale fittizio del film, a salvare in maniera rocambolesca gli ospiti della famiglia Tate. Nonostante le benevole ragioni del regista, il prodotto non ha convinto i censori cinesi in patria che si sono subito adoperati per bloccarne la data di rilascio. Il film è stato coprodotto dalla società cinematografica pechinese Bona Film Group che si sarebbe dovuta occupare dei diritti di distribuzione nel paese a patto che Tarantino assecondasse le richieste governative di tagliare di netto la parte relativa a Bruce Lee, compromesso a cui il regista non è stato disposto a scendere. A sollevare per prima le lamentele in Cina è stata la figlia di Bruce Lee, Shannon Lee, che ha definito “scoraggiante” il sedersi al cinema e dover ascoltare le risa del pubblico per il ritratto stereotipato, non accurato e arrogante del padre. La ragazza, impegnata giornalmente a portare avanti l’eredità culturale e intellettuale lasciatagli dal padre, ha considerato un grave insulto il ritratto pacchiano e caricaturale di Bruce Lee come quello di un uomo prepotente e pieno di sé, in considerazione degli attacchi razzisti e le manie di esclusione che l’attore, in quanto asiatico di colore americanizzato, ha dovuto subire nella vita reale dalla Hollywood anni ’60.

A seguito dell’irritante visione, Shannon Lee si è appellata direttamente all’autorità dell’Amministrazione Cinematografica Nazionale, agenzia esecutiva a livello ministeriale controllata dal Dipartimento di Propaganda, invitandola a modificare il ritratto di suo padre nel film e portando, in seguito, alla sospensione del rilascio a livello nazionale che avrebbe comportato il primo vero esordio di Quentin Tarantino in Cina. Il divieto di distribuzione nazionale è da intendersi come intimamente collegato a ciò che Bruce Lee rappresenta per la Cina: fiero ambasciatore di un nazionalismo cinese inteso come motivo d’orgoglio per la propria identità nazionale, veste conquistatasi in prima persona dall’attore a causa dei pregiudizi razziali dei quali è stato vittima in quanto immigrato negli Stati Uniti d’America all’inizio degli anni Sessanta.
Il contributo storico e culturale dell’attore risiede inoltre nel fatto di aver difeso l’orgoglio nazionale attraverso l’affermazione di un nuovo concetto di mascolinità, di fisicità cinese che ha messo in discussione le storiche rappresentazioni effemminate, passive e deboli degli uomini asiatici da parte di orientalisti europei agli inizi del ventesimo secolo. In considerazione del prestigio di cui gode il personaggio, non soltanto entro i limiti del contesto cinematografico cinese e internazionale ma anche come rappresentante di un rinnovamento ideologico-culturale, lo smacco causato dalla caratterizzazione dell’artista da parte di Tarantino ha sicuramente messo in luce la relazione che lega, nell’ambito della censura cinematografica cinese, il concetto di intransigenza a quello di protezione.
*Ilaria Nina inizia e conclude il suo percorso di studi universitari all’Università degli Studi di Macerata, ottenendo una laurea specialistica nel corso di Lingue, culture e traduzione per l’editoria ad Aprile 2022. La sua forte passione per il mondo orientale, in special modo per la realtà cinese, la portano a intraprendere un percorso di formazione all’Università Normale di Pechino (北京师范大学) dal 2018 al 2019, grazie alla vittoria della borsa di studio semestrale messa in palio da Hanban. Attualmente lavora come insegnante di italiano presso l’associazione culturale “Le Balene”, con sede a Treviso, impartendo lezioni a studenti cinesi di diverse fasce d’età.