Cina e copia sono ormai un luogo comune, spesso visto con i nostri occhi occidentali in senso dispregiativo. La copia cinese, specialmente quella artistica, ha dei fondamenti culturali che noi occidentali possiamo comprendere solamente analizzandone la storia e la filosofia dietro. Ho intervistato Nicole Galaverni approfittando della sua esperienza con il mercato dell’arte asiatico. Nicole si è laureata presso l’Accademia delle Arti di Brera con una tesi che esplora l’importanza culturale della “copia” nell’arte tradizionale cinese: “La copia cinese: fra tradizione e desiderio di modernità. Storia e disamina di questa pratica all’interno della cultura cinese, analisi delle sue conseguenze nel sistema dell’arte e nel suo rapporto con l’Occidente.”
di Nicole Galaverni*
La tua tesi tratta un argomento molto interessante e dibattuto nel mercato artistico contemporaneo. Potresti raccontarci come è nato questo interesse per l’arte cinese ed il concetto di copia?
La passione per l’Oriente e per l’arte orientale mi accompagnano da sempre. Nel mio percorso di studi forse – e purtroppo – queste sono state messe da parte perché mi riusciva difficile dedicargli il tempo che avrei voluto dovendo dare esami su esami. Poi ho iniziato uno stage curricolare presso Cambi Casa d’Aste, nella loro sede milanese in via San Marco, in cui, oltre alle diverse aste di fine anno, si stava preparando anche quella di Arte Orientale, fissata per fine gennaio. Un giorno, mentre mi era stato concesso di assistere all’impaginazione del catalogo, ci siamo imbattuti in un vaso con un marchio apocrifo (falso diremmo noi occidentali). Nonostante la quotazione, riconfermata poi dall’esperto che per un attimo pensava di essersi imbattuto in un vaso “del periodo”, fosse minore rispetto ad un manufatto originale, l’oggetto non era falso. Questo episodio ha suscitato in me l’interesse non solo per la prospettiva cinese sulla copia, ma anche sul come due concezioni così diverse – orientale e occidentale – potessero rapportarsi oggi, in un mondo in cui tutto è connesso.
Un falso cinese non è come un falso occidentale, questo è determinato dalle caratteristiche culturali di un paese. Non solo nell’arte, ma i prodotti cinesi sono sempre stati considerati da noi europei come “non originali”, e questa è per noi una connotazione negativa. Perché in Cina invece la copia non viene condannata, ma ha un valore?
Il falso può essere inteso come un metodo con cui, in momenti diversi, ci si è accostati alla lettura di altre epoche ed è perciò un fenomeno di assoluto interesse, così come l’omaggio, l’apocrifo, la contraffazione o la copia. Se per l’Occidente esso risulta problematico poiché strettamente legato a finalità ingannevoli (soprattutto in contesti di mercato), in Oriente il falso viene culturalmente accettato in quanto la copia assume la stessa valenza dell’originale. In Cina vi è un detto secondo cui “più sei bravo, più sei copiato”; in questo contesto culturale la copia diventa un assoluto omaggio verso qualcosa che si riconosce come superiore. Bisogna poi considerare l’amore per l’antico su cui i cinesi hanno costituito, almeno in principio, la pratica della copia, sia come modo per avvicinarsi alla gloria di un tempo passato, sia come modo per tenerlo sempre vivo e presente. Spesso era la stessa corte imperiale ad esortare i propri artisti di corte a copiare i lavori delle precedenti dinastie come segno di riverenza e rispetto. La fascinazione per le antichità guida ancora oggi il gusto collezionistico cinese: nelle aste è il settore degli Old Masters che traina il mercato.
Nella tua tesi utilizzi molti termini in cinese. Credo che sia essenziale alla comprensione del concetto di copia in Cina spiegare il significato di fangzhipin (纺织品) che letteralmente può essere tradotto come “imitazione”.
Il fangzhipin è un’imitazione dichiarata, in cui la distanza tra originale e copia è ben visibile: ne sono un esempio i modellini o le statuette che si possono acquistare nei negozi dei musei. In Cina però vige un altro tipo di copia, predominante rispetto alla prima tipologia, definita fuzhipin: in questo caso si tratta di una riproduzione esatta che, per i cinesi, ha lo stesso valore dell’originale, non presenta alcuna connotazione negativa e ha portato a molti fraintendimenti e discussioni tra la Cina e i musei occidentali.
La filosofia Confuciana e la visione di un tempo ciclico potrebbero aiutarci a comprendere il valore storico ed artistico della copia in Cina?
La concezione ciclica del tempo orientale e l’ideologia confuciana della messa in condivisione per il benessere della società hanno notevolmente influenzato la nozione di proprietà intellettuale cui inevitabilmente si fa riferimento parlando della copia. La Cina vede il tempo come un assoluto presente, in cui non sono importanti i rapporti di precedenza e conseguenza. Non riesce a riconoscere un’identità legata ad un singolo evento. Non è quindi importante stabilire la paternità di un’idea o di un manufatto, o meglio, non secondo la logica della creatività unica e irripetibile del genio occidentale. Questo discorso è evidente nella pratica tradizionale dei sigilli e dei colophon, i quali venivano posti direttamente sul dipinto da collezionisti e pittori che vi entravano in contatto. A differenza della firma occidentale impiegata per sancire l’autorialità, grazie a tali segni lo spettatore era in grado di inscrivere sé stesso nell’opera non in termini di paternità, ma aprendo un dialogo che sarebbe durato nei secoli.

La copia cinese è un concetto particolarmente distante dalla nostra cultura, che tende ad elogiare l’originalità di un’opera d’arte. Mi sapresti dire in quali casi l’occidente non ha compreso questo aspetto artistico-culturale tipico cinese?
Forse il più interessante caso di relativismo culturale è quello che ha riguardato il Santuario shintoista di Ise, nella prefettura di Mie in Giappone. Secondo i giapponesi questo dovrebbe avere milletrecento anni, ma in realtà la sua struttura e le reliquie che contiene vengono ricostruite ogni venti anni (l’ultimo intervento è avvenuto nel 2013) in un vero e proprio rituale chiamato Shikinen Sengu. Gli orientali non si pongono la questione dell’originale e della copia, tuttavia, questa pratica di rifacimento è talmente estranea alla concezione degli storici dell’arte occidentali che, dopo accesi dibattiti, l’Unesco ha deciso di eliminare Ise dalla lista dei siti considerati patrimonio dell’umanità poiché ritenuto un falso storico.
Un altro episodio riguarda invece Chang Dai-Chien, uno dei miei artisti preferiti. Personalità assolutamente controversa (era amico di Picasso per dire) e scomparso nel 1983, è tuttora stimato non solo per la sua reinterpretazione della pittura tradizionale mescolata con l’astrattismo, ma anche per la perfezione dei suoi falsi. In occasione della mostra di capolavori delle Dinastie Ming e Qing tenuta dal Musée Cernuschi di Parigi nel 1956 si è scoperta la sua abilità di falsario. Fu presto evidente, infatti, che tutte le opere esposte erano state realizzate dal pittore, il quale però non vedeva né falsi, né copie, ma solamente repliche di dipinti andati perduti di cui restava traccia nei cataloghi di pittura antica.
Come hai menzionato all’inizio, hai avuto l’occasione di lavorare per case d’asta che trattano opere d’arte cinesi. Qual è la tua opinione sul mercato dell’arte asiatico? E’ un fenomeno in crescita? Come si sta evolvendo?
Nella mia breve esperienza ho innanzitutto potuto notare una cosa: le aste di arte orientale sono caotiche, sfiancanti, la ricerca del pezzo da acquistare è maniacale da parte dei clienti, i quali sono o occidentali appassionati del settore (non si perdono un’asta) oppure orientali (la maggior parte). Dall’altra parte è divertente e eccitante essere parte di questo frenetico spettacolo.
C’è da considerare che il mercato dell’arte asiatico è giovanissimo: Galleria Continua è stata la prima galleria al mondo ad aprire in Cina, e questo nel 2005. Lorenzo Fiaschi, uno dei fondatori, mi ha raccontato di come la Cina non fosse assolutamente pronta a questo tipo di mercato. Per anni la galleria non ha venduto niente e veniva considerato come uno spazio ricreativo. La storia che una nazione come la Cina si porta dietro è un costante stimolo per gli artisti contemporanei che, anche se con mezzi “moderni”, non smettono mai di farvi riferimento. Quello cinese è anche il mercato che ha meno risentito della pandemia: le case d’aste si sono immediatamente riprese, facendo crescere il loro fatturato. Credo che dopo essere rimasta nell’ombra per così tanti, e nonostante stia diventando il nuovo asse del mondo, la Cina abbia ancora tanto da dire.
*Nicole Galaverni è laureata in Beni Culturali e in Comunicazione Espositiva presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Dopo una breve esperienza nel settore delle case d’aste, presso una nota casa d’asta italiana, attualmente lavora nel mercato delle gallerie d’arte. Grazie alla sua tesi di laurea magistrale, pubblicata presso la rivista Authenticity Studies. International Journal of Archaeology and Art dell’Università di Padova, ha potuto unire i due ambiti che guidano il suo interesse: il fascino per il mercato dell’arte e l’amore per l’arte orientale.
Interessante, però pure da noi, talora, l’allievo supera il maestro -dissimulando – scopiazzandolo.
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