La Cina elimina un altro marchio dai suoi preferiti. Situazione temporanea o definitiva?
24 marzo 2021, stessa storia, marchio differente. La questione che ha visto al centro delle polemiche in Cina questa volta riguarda il famoso marchio svedese di fast fashion. La Cina elimina H&M dai suoi preferiti, ed in molti si sono ricordati di quel che successe a Dolce e Gabbana nel 2018. Le tecniche comunicative sui social sono le stesse, ma le premesse sono molto diverse. Lucrezia Goldin, precedentemente ospite della rubrica “per quel che ne sa…” ci aveva già parlato di nazionalismo popolare dei social media Cinese. In quell’occasione avevamo approfondito ciò che successe a D&G, marchio che oltretutto non è ancora riuscito a riconquistare il cuore dei consumatori cinesi. Questa intervista, invece, esplora più da vicino i motivi per i quali la Cina ha boicottato H&M. La Cina è il quarto mercato per il colosso svedese (ospita 520 stores, secondo soltanto agli USA dove ne sono stati aperti 593) e perdere un mercato di tale importanza in questo momento potrebbe avere degli effetti irreparabili.
H&M è tutt’altro che un marchio del lusso, ma ciò che è appena successo potrebbe succedere a molti altri marchi, anche del lusso. Non è nè prima nè sarà l’ultima volta che questo accade, meglio prepararsi no?

- Sul blog di perquelchenesoio ci avevi già parlato dell’impatto del nazionalismo dei social cinesi, facendo riferimento al caso D&G. Con i recenti avvenimenti che vedono al centro delle polemiche H&M, è cambiato qualcosa nel tipo di boicottaggio?
I due episodi hanno premesse diverse, ma i risvolti sono simili, così come le tecniche comunicative impiegate dagli utenti sui social. Nel caso di H&M il boicottaggio è legato a questioni geopolitiche e la risposta nazionalista risulta quindi più evidente. La polemica contro il colosso svedese e le conseguenti ripercussioni agli altri brand di abbigliamento nascono infatti dal principio sempre più condiviso (online e non solo) che l’occidente non è qualificato per giudicare la Cina. E tanto meno per imporre sanzioni. Il successivo boicottaggio è almeno in parte una risposta delle recenti tensioni tra Cina e occidente.
Di simile con il caso D&G c’è quindi il tono della conversazione. Gli utenti utilizzano un linguaggio da una parte molto emotivo, dall’altra bellicoso. Il boicottaggio è narrato come una pratica patriottica che bisogna “portare fino in fondo”, il lessico è quello del “resistere” e non farsi umiliare. C’è anche molto risentimento e il pensiero dilagante che i brand occidentali non possano permettersi di intromettersi in affari politici cinesi e al contempo pretendere il denaro dei consumatori in Cina.
- Per il caso di D&G il governo non si espose direttamente ed il boicottaggio nacque principalmente su Weibo, in questo caso come si è comportato in governo?
Come sempre il fulcro del dibattito è avvenuto su Weibo, e uno dei commenti con il maggior seguito è partito dal l’account della Lega della Gioventù Comunista (Communist Youth League), un’associazione affiliata al governo. In realtà anche nel fiasco D&G la Lega della Gioventù aveva criticato aspramente il comportamento di Gabbana e chiedeva scuse formali da parte del brand italiano. Questa volta sembrerebbe che il nesso tra le decisioni governative e responso popolare sia più stretto, come suggerito dal fatto che il famigerato annuncio in cui H&M si è dichiarata “preoccupata per la sospetta violazione dei diritti umani” in Xinjiang risale all’anno scorso, mentre l’indignazione e le ripercussioni attive sono arrivate solo ora. Sicuramente la copertura mediatica cinese degli ultimi avvenimenti e incontri più tesi con alcune potenze occidentali ha contribuito a fomentare l’oltraggio. A seguito delle sanzioni UE contro la Cina per la violazione dei diritti umani in Xinjiang, per esempio, Pechino si è espressa accusando il Consiglio per gli Affari Esteri europeo di “diffondere menzogne e informazioni false”, cosa largamente condivisa dagli utenti di Weibo che hanno condannato H&M per essersi “schierata”.
- H&M è un brand alla mano, non di élite come D&G, il tipo di boicottaggio è stato quindi diverso? E cosa ha invece in comune con il boicottaggio dei brand giapponesi del 2012 durante la disputa delle isole senkaku o diaoyu?
Le marche che sono state colpite perché hanno partecipato alla BCI (Better Cotton Initiative) sono di un target diverso rispetto a D&G e potrebbero per questo soffrire maggiormente rispetto ai brand di lusso, soprattutto in un periodo come quello pandemico dove il mercato cinese offre più possibilità di altri. Quello che ha stupito in questo caso è la vastità del boicottaggio, e l’accanimento su più fronti. I prodotti H&M non solo sono stati ritirati dalle principali piattaforme di e-commerce così come dai rivenditori di usato, ma sembrerebbe che nei primi giorni della polemica fosse addirittura impossibile ordinare un Didi (Taxi) con destinazione uno dei negozi. Essendo il boicottaggio legati a questioni di interferenza politica poi, in questo caso il sentimento si è esteso a macchia d’olio colpendo anche altri brand, tra cui anche il marchio di lusso Burberry, che fino a pochi giorni fa stava andando molto bene in Cina.
Per quanto riguarda ciò che è avvenuto nel 2012, la situazione era un po’ diversa. Le tensioni tra Cina e Giappone in merito alla sovranità delle isole Diaoyu erano percepibili sia a livello statale, che popolare. Il pregresso storico tra i due paesi dell’Est asiatico ha fatto sì che il risentimento cinese nei confronti dei prodotti giapponesi raggiungesse livelli assurdi, tanto che il governo è dovuto intervenire perché ci sono stati diversi casi di aggressioni a persone (cinesi) in possesso di macchine di marca Toyota. Da allora le cose sono cambiate, e il governo predilige il consentire una libera espressione, anche a volta aggressiva, in modalità virtuale, utilizzando internet come valvola di sfogo, ma previene l’attivismo e la mobilitazione, anche quello di stampo nazionalista.

- Sappiamo tutti come i brand occidentali siano ormai obbligati alla trasparenza su tutta la loro filiera produttiva. Soprattutto dopo il crollo del Rana Plaza di Savar in Bangladesh. L’intento quindi di H&M e Nike era proprio quello di non andare in contro a scandali nel mondo occidentale. Spesso succede però che i brand occidentali in Cina facciano cose di cui non conoscono le conseguenze. Credi che questi brand abbiano del tutto dimenticato la risposta della clientela cinese oppure ritenevano fondamentale rispettare i propri valori, come quelli legati ai diritti umani?
Non penso che questi marchi di successo fossero inconsapevoli dei rischi che correvano nel prendere una posizione in merito alla questione Xinjiang. Trovo invece che sia stata una scelta necessaria da parte soprattutto di H&M, che aveva bisogno di risollevare la propria reputazione agli occhi dei consumatori, dato che in passato è stata spesso criticata per violazione dei diritti dei lavoratori (specie nelle filiere in outsourcing). Alle aziende oggi è richiesto di dimostrarsi sostenibili e trasparenti nelle loro supply chain, e corrono quindi il rischio di essere interpretati come anti-Cina nel seguire la narrativa europea. Non penso nemmeno sia una questione “morale”, non per tutti almeno. C’è chi, come Patagonia e Gap ha preso posizione in modo evidente da subito, e chi invece ha cercato di tagliare i ponti con le forniture di cotone in Xinjiang ma facendolo in sordina, per sottrarsi all’ira dei consumatori cinesi, come ha tentato di fare Zara (con scarso successo. Gli internauti cinesi sono molto abili a stanare ogni informazione dal web).
- Essendo la Cina il quarto mercato per H&M, per quanto vada contro i loro valori, non credi che l’azienda debba tenere conto delle conseguenze che azioni hanno su un mercato così importante? Ad esempio mascherando situazioni di questo tipo dove non si vuole comprare cotone dello Xinjiang ma allo stesso tempo mantenere la clientela cinese.
H&M ha dichiarato da subito che la decisione di non rifornirsi da fabbriche del Xinjiang non era di natura politica. Ha poi fatto presente che si affida ad altri 350 produttori cinese per la propria catena di fornitura per cercare di ripararsi dalle critiche, ma anche questo non ha funzionato. Le aziende occidentali che vogliono penetrare nel mercato cinese dovranno sempre fare i conti con il contesto politico in Cina. La differenza qui è che se su altre questioni di rilevanza politica i brand hanno la possibilità di sviare o riuscire a non schierarsi, come per esempio su Hong Kong o Taiwan, in questo caso è quasi impossibile non prendere una posizione. In Xinjiang si produce l’80% del cotone cinese e il 20% del cotone mondiale. O ti rifornisci da li. O non ti rifornisci da lì. La risposta, a questo punto, è un inevitabile schierarsi. E questo genera una risposta (se pur diversa) tanto dal consumatore europeo quanto da quello cinese.
- Parlando di effetti. Abbiamo visto come D&G non sia ancora riuscita a recuperare la fiducia dei consumatori cinesi, secondo te in questo caso H&M andrà incontro a difficoltà di questo tipo?
Considerata la portata del boicottaggio e la effettiva cancellazione del brand dalle principali piattaforme, è sicuro che questo sarà un brutto colpo per il brand svedese. Il posizionamento dei prodotti H&M poi, conta molto sul numero di punti vendita sparsi nel paese, mentre D&G ha sostenuto comunque il suo fatturato grazie al suo target di nicchia in altri paesi. È ancora presto per capire quanto grave sarà il danno. In questo caso uno scanzonato video di scuse e un duibuqi detto male non sortirebbero alcun effetto (non che abbiano funzionato la prima volta).
C’è da dire però che alcuni brand colpiti dal boicottaggio stanno già dando segni di ripresa, come la Nike, che nonostante le critiche su Weibo è riuscita a vendere bene la sua ultima collezione.
- Ho letto qualche commento sotto gli articoli di SCMP e molti sostengono fermamente il governo cinese, definendo quelle su lo Xinjiang fake news. So che spesso il governo agisce attraverso queste persone. Non fa dichiarazioni ufficiali ma usa questi utenti a volte fake per diffondere la verità. Secondo te è stata usata queste tattica anche in questo caso oppure sono persone “vere” che credono in quello che dicono.
Capire quanti dei commenti online siano manipolati o influenzati è pressoché impossibile. Possiamo basarci sui fatti, trovare pattern tra le parole e il linguaggio utilizzato, ma non stabilire le intenzioni di un utente nel comporre un tweet. È innegabile che una buona parte del sentimento popolare sia spesso in linea con quella che è l’ideologia del partito e i suoi principi fondanti. Il nazionalismo popolare consiste proprio in questo, non è un indottrinamento dall’alto, ma un sentimento patriottico che ha trovato nel mezzo digitale una nuova forma per esprimersi, a volte anche rischiando di compromettere la sovranità statale per quanto è dirompente. Tuttavia, non è un segreto che il governo abbia in mano le redini dello spazio digitale, nelle sue meccaniche quanto nei contenuti. Una recente ricerca del 2017 (Qin, Stromberg and Wu) ha dimostrato, per esempio, che su Weibo ci sono 600mila account affiliati al governo, che contano il 4% dei contenuti totali su Weibo su temi di politica ed economia.